Coronavirus, DVR e valutazione dei rischi: cosa deve fare il datore di lavoro?

Quali obblighi ha il datore di lavoro di fronte al “Rischio Coronavirus”?

Web e social riportano interpretazioni di ogni tipo e prospettano le soluzioni più varie: valutare il rischio biologico, aggiornare “in continuo” il DVR, predeterminare gli scenari  di diffusione del contagio secondo livelli crescenti di gravità, e molto altro.

E’ davvero così?

Mentre per l’impatto del virus sul lavoro occorre attendere le decisioni che prenderanno le Autorità e gli Istituti competenti (come gestire i lavoratori assenti ivi compresi quelli non contagiati? quale disciplina economica dare al rapporto? ci sarà cassa integrazione? o altre forme di sostegno al reddito?) sulle questioni legate alla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro è possibile individuare dei punti fermi.

Per farlo, occorre partire come sempre dalle norme.

Il Decreto Legge n. 6/2020 del 23 febbraio 2020 ha previsto misure di contenimento per le aree nelle quali risulta positiva almeno una persona con fonte di trasmissione ignota o un caso non riconducibile a persone delle aree già interessate dal contagio. Il Decreto non impone misure dirette, ma demanda alle autorità competenti di adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata; poi detta un elenco delle misure che “possono essere adottate”. Oltre ad alcune divenute ben note (sospensione di manifestazioni ed eventi, di attività scolastiche e formative, chiusura di musei e simili, ecc.) sono possibili la “chiusura di tutte le attività commerciali, esclusi gli esercizi commerciali per l’acquisto di beni di prima necessità”; la “chiusura o limitazione dell’attività degli uffici pubblici, degli esercenti attività di pubblica utilità e servizi pubblici essenziali specificamente individuati”; la “limitazione all’accesso o sospensione dei servizi del trasporto di merci e di persone…nonché di trasporto pubblico locale… salvo specifiche deroghe”; la “sospensione delle attività lavorative per le imprese, a esclusione di quelle che erogano servizi essenziali e di pubblica utilità e di quelle che possono essere svolte in modalità domiciliare”; la “sospensione o limitazione delle attività lavorative nelle aree interessate dal virus o degli abitanti di dette aree svolte al di fuori…salvo specifiche deroghe, anche in ordine ai presupposti, ai limiti e alle modalità di svolgimento del lavoro agile”.

Sono tutte misure che “possono” essere adottate, e molte di queste misure non sono state adottate; sicuramente non è mai stata disposta la “sospensione delle attività lavorative per le imprese”.

Il DPCM del 23 febbraio 2020 è il primo provvedimento attuativo con cui sono state effettivamente adottate le misure, tra quelle sopra previste come possibili; il DPCM riguardava esclusivamente i comuni delle c.d. zone rosse e quindi in Veneto soltanto il Comune di Vò. Per le imprese al di fuori delle zone rosse, la sola norma che direttamente impattava sul rapporto di lavoro era l’art. 3, sul lavoro agile-smart working.

Il DPCM del 25 febbraio 2020 ha adottato ulteriori misure di contenimento, non più solo per le zone rosse ma per tutti i comuni del Veneto e delle altre Regioni ad oggi interessate: ci sono la sospensione di eventi sportivi, viaggi d’istruzione, esami di guida, ecc.; ancora una volte, non vi è nessun provvedimento generale di sospensione delle attività produttive.

La Ordinanza del Ministero Salute e Presidente Regione Veneto n. 1/2020 del 23 febbraio 2020 (integrata dalla Circolare esplicativa n. 87953 del 24 febbraio 2020 del Direttore Generale Area Sanità Regione Veneto), dispone misure straordinarie per l’intero territorio regionale, efficaci fino all’1 marzo 2020.

Vi è l’obbligo di sospensione per una serie di attività collegate prevalentemente al mondo delle “manifestazioni” (discoteche e sale da ballo, rappresentazioni teatrali e cinematografiche, ecc.), ma sono escluse le attività corsistiche ordinarie (centri linguistici, scuole guida, ecc.) e gli impianti sportivi (centri sportivi, palestre, piscine).

Soprattutto, “sono escluse da tale sospensione anche tutte le attività economiche, agricole, produttive, commerciali e di servizio, ivi compresi i pubblici esercizi, le mense, i mercati settimanali”.

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Da queste norme possiamo ricavare, nella prospettiva della sicurezza e igiene del lavoro, alcune indicazioni ben precise.

Il primo dato certo è che le attività lavorative in genere non sono state fatte oggetto di misure sospensive, pur essendo questa una delle possibilità previste dal DL n. 6/2020. Questo significa che le Autorità competenti hanno compiuto esse stesse una valutazione del rischio: il che è assolutamente rispondente alle caratteristiche della situazione, in cui non si discute di un rischio lavorativo legato alle specifiche lavorazioni ed alle peculiari condizioni di ogni singola azienda, ente, organizzazione.

Il datore di lavoro non è dunque tenuto a compiere una “propria” valutazione del rischio, per decidere se tenere aperta l’azienda o se invece lasciare tutti a casa a scopo prevenzionale.

Ma il datore di lavoro non è neppure tenuto a definire il quadro di tutti gli scenari possibili, secondo livelli crescenti di gravità, e a individuare le misure di prevenzione corrispondenti a ciascun livello di gravità.

Soprattutto, il datore di lavoro non è tenuto a formalizzare nessun aggiornamento del proprio DVR aziendale, e tantomeno è obbligato poi ad una gestione “quotidiana” e “continua” del DVR, di volta in volta registrando (addirittura con data certa) in quale livello di scenario ci si trovi giorno per giorno.

Si tratta di soluzioni che si trovano sul web, e che – come a volte accade in questi casi – si sono improvvisamente auto-alimentate fino ad assumere quasi uno status di regola obbligatoria.

Ma non è così, e non può essere così.

Non solo e non tanto per la inapplicabilità anche pratica di una tale soluzione, che poi è anche inutilità in concreto: il tempo di registrare con data certa uno scenario, e già occorrerebbe una registrazione nuova, magari prima ancora di avere adottato le misure.

Non solo e non tanto perché la sicurezza non è solo DVR: si dovrebbe anche dare seguito a tutti gli altri adempimenti del Decreto 81, altrimenti si tratterebbe soltanto di applicare la norma nel suo significato più formalistico.

Ma soprattutto, un aggiornamento siffatto del DVR non sarebbe affatto una valutazione dei rischi lavorativi aziendali: sarebbe, nella migliore delle ipotesi, il recepimento nel DVR di scenari e di regole sanciti già dalle Autorità; nella peggiore, un copia-incolla di testi reperiti on-line privo di qualsiasi specifica valenza individuale.

Si noti che anche la Circolare n. 3190 del 3 febbraio 2020 del Ministero della Salute, avente ad oggetto specificamente “gli operatori dei servizi/esercizi a contatto con il pubblico”, aveva ricordato che “la responsabilità di tutelarli dal rischio biologico è in capo al datore di lavoro, con la collaborazione del medico competente”; però aggiungeva anche che: “le misure devono tenere conto della situazione di rischio che…nel caso in esame è attualmente caratterizzata in Italia dall’assenza di circolazione del virus”.

La situazione di rischio è l’elemento da cui dipendono le misure: e la situazione di rischio non è e non può essere, quando si parla di contagio da Coronavirus, una valutazione del singolo datore di lavoro.

Come si legge anche nel DPCM 25 febbraio 2020, le nuove misure sono state adottate “preso atto dell’evolversi della situazione epidemiologica”: questa sola rileva, e la valutazione di essa non sta certo al datore di lavoro.

Naturalmente, una menzione particolare va fatta per i datori di lavoro di quelle zone e di quelle attività, per le quali è stata imposta la sospensione: ma ancora una volta è l’Autorità a decidere.

E lo stesso è a dirsi per quei datori di lavoro i cui lavoratori per mansione, per luogo di lavoro, per tipologia di lavorazione possono essere esposti: personale che ha contatti con il pubblico, lavoratori che viaggiano, ecc. Ma, a ben guardare, anche per questi casi si possono trovare, nell’insieme delle regole dettate dall’Autorità, sia la valutazione del rischio, sia le misure: i datori di lavoro dovranno naturalmente conformarle alla propria specifica organizzazione ed alle modalità di funzionamento di essa.

Dopodichè, quello che ogni datore di lavoro deve fare è di tenersi costantemente informato sull’evolversi del contenuto dei provvedimenti delle autorità; ma non appare ragionevole né utile  immaginare che questo obbligo di agire informati si debba tradurre  in una costante e permanente opera di aggiornamento del DVR; così come la consultazione con il medico competente è senz’altro giustificata in fattispecie specifiche, ma certo non si sostituisce alle valutazioni compiute dalle Autorità Sanitarie pubbliche.

E ancora, sarà cura del datore di lavoro provvedere a dare informazione ai lavoratori, ricordando gli obblighi generali di prevenzione della malattia tra cui in primis le misure igieniche; e naturalmente creare le condizioni per la loro attuazione (mettere a disposizione sapone e soluzioni idroalcoliche, ecc.); inoltre andranno seguite con rigore le indicazioni date dalle Autorità, se si abbia evidenza di un caso sospetto; e in questo senso anche il ruolo attivo dei lavoratori diventa fondamentale.

In sostanza, non vi è dubbio che il datore di lavoro, stante il suo obbligo di tutela della salute dei lavoratori, sia chiamato a fare quanto in suo potere per dare diffusione ed attuazione alle regole generali sancite dalle Autorità competenti per tutte le persone (quali sono tanto i datori di lavoro quanto i lavoratori) ed inoltre per conformarle alla propria realtà aziendale; quindi non sarebbe corretto affermare che il datore di lavoro non sia tenuto a fare nulla perché il coronavirus non è un “suo” problema; però non può  derivarne la costruzione di adempimenti improbabili, che sembrano presupporre un obbligo del datore di lavoro di governare fenomeni ben al di fuori di ciò che egli può fare.

Mai come in questo caso occorre ribadire con forza che un rischio di per sè non eliminabile non può diventare un “rischio zero” all’interno dei luoghi di lavoro, e soltanto lì.

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Una ultima considerazione può farsi sul tema del lavoro agile.

L’art. 2 del nuovo DPCM 25 febbraio 2020 sostituisce l’art. 3 del DPCM di pochi giorni prima; ne modifica l’ambito territoriale (si applica non nelle aree “considerate a rischio”, bensì ai “datori di lavoro aventi sede legale o operativa” in Veneto e nelle altre Regioni interessate, nonché “per i lavoratori ivi residenti o domiciliati” che lavorino al di fuori di esse); introduce un limite temporale, perché il lavoro agile è applicabile secondo le nuove particolari condizioni soltanto “in via provvisoria, fino al 15 marzo 2020”; per il resto ribadisce le forme di favore precedenti, e cioè:

  1. è applicabile ad ogni rapporto di lavoro subordinato;
  1. si applica anche in assenza degli accordi individuali previsti;
  2. la informativa per la sicurezza sul lavoro al lavoratore va resa in via telematica anche utilizzando il modello INAIL.

La scelta è chiara: per il Governo, lo smart working è anch’esso una misura di prevenzione e per questo si vuole agevolarlo e semplificarlo. In questo senso va anche la previsione per cui la informativa obbligatoria al lavoratore sui rischi generali e sui rischi specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione può essere resa in via telematica, e soprattutto può essere fatta “ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’INAIL”: e il modello di informativa è già disponibile nel sito INAIL. In sostanza, si è standardizzato l’adempimento.

Largo dunque allo smart working come mezzo di prevenzione.

Probabilmente il Governo pensa allo smart worker che lavora da casa, più che a quello “senza vincoli di luogo di lavoro”; però in questo momento l’intento (l’auspicio?) del Governo sembra essere soprattutto quello di limitare la presenza di lavoratori nei luoghi di lavoro abituali, e quindi va bene così.

In ottica di prevenzione, anche questa è una indicazione per i datori di lavoro del Veneto e delle altre Regioni (o di quelli che occupano lavoratori di queste Regioni): se il lavoro agile è praticabile, è bene cercare di attuarlo.

Però non è un obbligo, si badi bene: il che è ovvio, visto che non è uno strumento che si inventa (ed infatti il nuovo articolo non prevede più che venga applicato “in via automatica”, termine che nel primo DPCM serviva forse per dare il senso della rimozione di vincoli, ma che si prestava a fraintendimenti).

Non sarà dunque rimproverabile un datore di lavoro per non avere attuato il lavoro agile.

Anche perché la scelta del DPCM è molto chiara pure nel senso opposto, e conferma il dato centrale: lo smart working è solo una opzione raccomandata, ma il luogo di lavoro abituale rimane accessibile, perché è sicuro tanto quanto ogni altro luogo.